Volentieri classifico il libro di Gabriele Turi (La cultura delle destre. Alla ricerca dell'egemonia culturale in Italia, Bollati
Boringhieri), l’ennesima pallosa ricognizione in un mondo che si conosce da
lungi. La masticazione e la rimasticazione di letture e conferenze di venti
anni fa. Vada per i nemici maggiori dei nostri tempi – di “destra” direbbe
Turi, anche se eccettuato Berlusconi-il mostro è difficile capire cos’è –, cioè
l’individualismo sfrenato e la dittatura del mercato, ma la mia idea di
(presunta) supremazia della destra in Italia oggi è quanto di più lontano ci
possa essere da quella del professore di Firenze.
Primo: la destra non ha una cultura se la intendiamo come
elemento unificante finanche nel lessico. Dire che alla base della cultura
della destra c’è una concezione spirituale della vita non ha alcun senso se non
si chiariscono:
a) il fondamento della spiritualità e i propositi dell’asceta;
b) il nesso tra spiritualità e relazioni quotidiane. Idem
per le istanze antimoderne.
Secondo: la destra non è destra perché essa stessa –
cioè i referenti culturali che più degli altri ne hanno giustificato
l’esistenza – non ha mai capito cosa in realtà fosse. E conseguentemente come potesse
essere egemone. Neanche Turi prova a spiegare cos’è, o meglio: non la spiega in
base a elementi propri, culturali o spirituali, qualunque essi siano, ma in
base a un’elementare, forse troppo, osservazione dei fatti. C’è una sinistra e
c’è una destra, così come in qualsiasi partita c’è un bianco e c’è un nero. Ci siamo
noi con le nostre ragioni e ci sono gli altri coi loro torti. Amen. Dopo anni
di retroguardia, questa cultura ce la ritroviamo bella e pronta dalla metà dei
Novanta con la nascita del berlusconismo. Negli Ottanta si è consumata la crisi
della sinistra e con essa è morta la “passione politica”: oggi c’è chi ama ripetere
ancora la formuletta della “passione” ma più per convincere se stesso che gli
altri. Quella di destra è una cultura politica populista, dominata dal volere
del capo, non democratica se non antidemocratica e antipartitica. Antistatalista
(antistatalista la “destra” neofascista?). La sua fede è l’eclettismo in nome
di una generica cultura nazionale che risale al periodo fascista, il suo nemico
il comunismo anche se per Turi è fulmineamente passato a miglior vita subito
dopo caduta del Muro di Berlino. Uno dei capi d’accusa utilizzati dal docente
di storia contemporanea contro la “destra” è proprio quel tentativo di
spoliticizzare la storia e di mandare a quasi settant’anni dalla fine della guerra
tutti colpevoli o tutti assolti. Tutti appunto. Senza particolari distinzioni
annegando nel genus “guerra civile” qualunque distinzione tra buoni e cattivi.
Distinzione non morale ma politica, ovviamente. O forse no.
Diceva più o meno la stessa cosa – questa sì che è una
cultura! – un professore della sinistra siciliana il cui nome ai più non
direbbe nulla. Alla fine di una conferenza tenutasi qualche giorno fa sui settant’anni
dallo sbarco degli alleati in Sicilia (10 luglio 1943). I buoni erano loro
(loro chi? se in quella università buona parte dei docenti discende da gerarchi…),
che alla fine della guerra perdonarono i cattivi. Magari però, i preti del “triangolo
della morte” non sono mai stati qui a raccontarlo, né è stato qui Giovanni
Gentile. Se avessero vinto i cattivi invece, la penisola sarebbe diventata un
immenso campo di concentramento: tipo la Cina comunista, tanto per dire. Insomma ai
tentativi della “destra” di spoliticizzare la storia, buttandola in cultura:
Gentile e Bottai, non fascisti ma grandi italiani, Mussolini patriota costretto
dagli eventi a decisioni estreme, segue una reazione uguale e contraria da
parte della sinistra ex comunista o comunista, che prova e riprova a immergere
il secchio nel pozzo del bene e del male. Da qui la questione non tanto
dell’egemonia culturale della sinistra, non entro in discussioni che hanno
dell’assurdo, quanto della sua superiorità morale, compresa quella dei
comunisti (criminali o meno); per cui in fondo loro stavano dalla parte dei deboli, dalla parte del progresso,
auspicavano la fine positiva della storia, eccetera. Discorsoni che a giorni
alterni facevano a pugni con la prassi politica. Soprattutto se entrava in
questione il sostantivo libertà. Sostantivo che agli ex comunisti – non meno
che agli ex fascisti – ha sempre fatto un certo effetto.
Ma ritorniamo a Turi. A lui sta a cuore la noiosissima
questione del revisionismo. E qui lo storico fa un passo avanti. La questione
suona più o meno così. C’è un uso come dire guareschiano della politica per cui
la si acchiappa per i capelli alla bisogna. I destrini depoliticizzano il
fascismo, cioè non dicono mai che si trattò di una dittatura spietata e
illiberale che varò le leggi razziali, che mandò al confino fior di
intellettuali che, soprattutto al sud, non permise ad ampie regioni di
modernizzarsi e che bloccò l’avanzata del movimento operaio. Poi però accusano
gli avversari di fare un uso politico della storia, di continuare a reiterare
la condanna del passato; continuano a piangersi addosso (sport preferito da
certa destra) dicendo che la sinistra egemone non ha mai legittimato la destra
in ragione di quel che avvenne a partire dai Venti. Insomma la destra è
patriottica se pensa al fascismo, ma sulla difensiva per tutto il resto.
Conseguenze: essa stessa non riesce ad allontanare i fantasmi del fascismo,
tirato in ballo ad ogni occasione come linea di confine, ma questa stessa linea
di confine la destra vorrebbe abbattere in nome di una non ben identificata
«pacificazione». Da un lato siamo fascisti, ma dall’altro non lo siamo, o forse
lo siamo tutti. Se ci si pensa, è la linea del Movimento sociale degli anni
Cinquanta. L’Italia prima era tutta fascista, poi per convenienze (di pochi),
tradimenti vari e sconfitte sul campo non lo è più stata. La pacificazione
serve a ricompattare gli italiani non nel campo dell’antifascismo, ma in quello
del fascismo. Così la pensavano i missini quasi settant’anni fa. Ci sono dinosauri
che la pensano così anche adesso? Spero sia solo frutto di una stupida coazione
a ripetere. Ma Turi ne azzecca poche ugualmente. Quella che lui pensa sia
“destra” o meglio “destre”, dal titolo, in realtà è un groviglio di fili di
lana di infiniti colori. Cita ma non approfondisce. Per la maggior parte si
tratta di gruppi che mollano sciocchezze a uso babbei, solo cretinate di chi
vorrebbe sovrapporre alla storia del pensiero politico – da Machiavelli in poi,
passando per il giusnaturalismo moderno, il liberalismo e i socialismi – “La Divina commedia” o “Il Signore
degli anelli” di Tolkien più qualche romanzuccio o memoriale di questo o
quell’artista, fascistizzatosi più per umore che per convinzione. Una specie di
repubblica dei poeti o dei letterati che parte dal nulla e al nulla porterebbe (come
in molti sanno, ma presi da un infantile anticonformismo stentano a rivelare a
se stessi). Venti? Trenta? Saranno trent’anni
che leggo frasi del tipo: il complotto giudaico, o giudaico massonico o
plutocratico o vattelappesca ha per fine la creazione di un’umanità sfaldata,
che non vive ma vegeta, priva di personalità. Di una massa di senza volto
pronta a obbedire ai propri burattinai come una pecora al cane da pastore. Ecco:
più che l’esito del “complotto” delle forze sovversive sembra il perfetto
identikit del militante di destra.
Un collega defunto di Turi, Santi Correnti
sicilianista a più non posso: uno di quelli per cui la Sicilia era come l’Italia
per Mino Reitano, nel 1977 scrisse un libello contro Leonardo Sciascia. Come
molti sapranno Sciascia non le mandava a dire né alla Sicilia né ai siciliani.
Ebbene: Correnti per confutare le “tesi” sciasciane (non entro né nella
confutazione né nella presunte “tesi”) che la Sicilia non avesse una
cultura, anzi peggio: che i siciliani fossero pazzi e cretini, riempì la pagina
di un libro con un’elencazione di nomi di intellettuali e scrittori siciliani
da Pirandello e Verga in poi. Naturalmente, non so se Turi ne converrà,
un’elencazione a freddo di nomi non significa nulla (come se a sinistra fossero
tutti geni perché hanno letto Marx e Gramsci). La Sicilia è un (non)luogo
invivibile, è una regione povera, ferma alla cultura del rudere, priva di una
moderna cultura (diritti compresi). Ebbene, non basta affermare che a “destra”,
anche se in pochi sanno cos’è, si collocano Celine, Pound, Marinetti e tanti
altri (vedi elenchi di Giovanni Raboni e Marcello Veneziani) e che sono i punti
di riferimento di un gruppo numeroso di studiosi e curiosi che invadono il web
e poche accademie; anche perché se il loro punto di riferimento si chiama
Berlusconi e gli amministratori si chiamano Storace, Cuffaro, Polverini,
Formigoni e qui mi fermo, non si capisce cosa c’entrino il Futurismo o il
Vorticismo. Insomma: forse la sinistra o meglio il comunismo non sarà stato
egemone in Italia, anche se ci ha provato, ma di certo non lo è stata la
“destra”. O se lo è stata – in nome dell’assurdo – non ha votato Berlusconi
grazie ai professori o alle riviste web, ma perché non voleva pagare le tasse,
perché teme e temeva le forze illiberali e perché la parte avversa da almeno
vent’anni non è riuscita a governare se stessa, figuriamoci un paese di
sessanta milioni di anime e tutto sommato ricco. La questione del revisionismo
in una repubblica libera e incorrotta sarebbe una non questione, al più materia
per terza pagine di quotidiano. Ma conviene prendersela con gli storici poco
onesti (cioè quelli di “destra” o giù di lì) e con i tentativi egemonici di due
o tre gruppettini di precari, che con i vertici della propria parte politica
del tutto incapace di guardare oltre il posto fisso e il seggio in Parlamento.
Giovanni Gentile, filosofo del fascismo, al contrario
di quel che pensa Turi non è affatto il riferimento massimo di una destra
egemonica, ma un intellettuale a cui si dedica qualche convegno e sul quale si scrivono
una manciata di libri. Punto e basta. Simbolo di una resistenza che ha qualche
scheletro nell’armadio (ma chi scambia la storia per guerra di religione non lo
capirà mai!). Forse era qualcosa di più nei Settanta quando i fasci lo
contrapponevano a Julius Evola personaggio grazie al quale è più facile
scrivere romanzi alla Susanna Tamaro che metterci su un regno o una nuova
“Comune”, stavolta romana. D’altra parte, ha scritto Paolo Simoncelli, anche la
condanna di Gentile, il cui antirazzismo non convince Turi, servirebbe a coprire
altri silenzi: in primo luogo sulla questione razziale. Anzi più che silenzi
vere e proprie prese di posizione, come quelle – cito da un articolo su “Storia
in rete” del maggio scorso – di Luigi Firpo, Giovanni Spadolini, Gabriele De Rosa,
Guido Piovene e Giorgio Bocca. Ma proprio dagli scritti di “Storia in rete” per
Turi sarebbe opportuno prendere le distanze. Si è sovente giustificata la netta
presa di posizione (n-e-t-t-a) contro gli ebrei con la giovane età. Facendo torto
a quanti anche a sedici o a diciassette anni sfidarono le ire di questo o quel
gerarchetto ostentando una chiara fede antifascista. Chissenefrega se chi si
schierò col duce o si disse favorevole alle leggi razziali aveva appena
diciotto anni. Valga per chiunque naturalmente.
La circostanza stessa poi che scorrendo l’indice dei
nomi non figuri Tolkien, protagonista assoluto dell’immaginario della destra
giovanile da almeno trent’anni, è davvero significativa. Turi non conosce a sufficienza quel mondo di cui scrive (non è ironia: forse è un bene) e impazzisce dalla voglia di buttarla lui in politica (ma come dargli torto). D'altra parte mettere assieme qualche conferenza con nomi prestigiosi – da Marcello
Pera a Sergio Romano – una successione di nomi a capo di questa o
quell’istituzione – Turi vorrebbe per caso inibirne l’attività, peraltro
tutt’altro che determinante per le sorti della repubblica? – e una serie di
pubblicazioni il cui rapporto lettore/autore è pressoché 1:1 (insomma non se le
leggono manco le fidanzate o mogli degli autori), non serve a molto. Basterebbe visitare una decina di siti web o consultare quotidiani e periodici. Ne verrebbe fuori un elenco aperto a qualsiasi manipolazione. Chi non ne sarebbe capace? Altro problema
legato al revisionismo: la questione dei libri di testo, della storia del
Novecento unito al tentativo grossolano delle «destre» di metter bocca sul
contenuto dei volumi, perché a loro dire privi della dovuta obiettività. Caso
esemplare quello delle foibe. Il cavallo di battaglia delle «destre» da
svariati anni a questa parte. Ma qui non posso dar torto a Turi. Quale rimedio
proporre? Quello delle verità storiche di stato; un rimedio uguale e contrario
alle finte o parziali verità che si vorrebbero sepolte dalle macerie del Muro
di Berlino? Quello delle commissioni di controllo e di rettifica? Un governo liberale
– se lo è – non obbliga a una sola verità, ma al contrario al pluralismo delle
opinioni: l’una di fronte all’altra, l’una di fianco all’altra. La “verità”
storica è frutto di una sintesi di esiti parziali non di una censura sulle
analisi. Provino a studiare di più e meglio, provino a dare ai giovani mezzi
per le ricerche, questi uomini di destra – rozzi e ignoranti, se non violenti –
invece di spararla grossa e poi piangersi addosso perché mammina e papino hanno
detto no. Pensino questi uomini a quello che ha rappresentato Gramsci per la
cultura italiana e offrano spazio a chi lo cerca. Agli studiosi validi e
responsabili. Esiste a destra un problema fondazioni o periodici?
Turi lascerebbe intendere di sì. E sarebbero queste le armi principali della
destra egemonica? Pensa te. Fondazioni che nascono e muoiono nel giro di due o
tre stagioni, la cui dinamicità preoccupa solo l’autore; periodici liberal-conservatori
snobbati dalle università, distribuiti in un quinto delle regioni italiane, acquistati
in un decimo e letti in un ventesimo. Riviste di storia militare con tirature da
barzelletta. Bla bla bla dilettanteschi di nazionalrivoluzionari di mezza età
con moglie oziosa, posto fisso e seconda occupazione. Intellettuali cattolici
che organizzano conferenze sul cattolicesimo (una novità assoluta, dunque). Qui
il vero problema è la scarsa conoscenza del passato della “destra” da parte di
Turi. A destra fin dalle origini è sempre esistita una vocazione giornalistico-culturale.
Nel 1981 Umberto Di Meglio pubblicava su “Rivista di studi corporativi”, n.
5-6, lo studio “Il ruolo della stampa nella nascita del Msi”. Per l’autore alla
base della nascita del Movimento Sociale c’era stato un grande dibattito giornalistico.
E stia tranquillo il professore fiorentino che nessuno di quei fascisti avrebbe
fatto proprio il motto “uno per tutti e tutti per uno”. Anche allora la
“destra” era egemone? Non era obiettivamente presto?
Ma il chiodo fisso di Turi sono i simboli della
cristianità. Il professore si sofferma a lungo sulle questioni giuridiche
relative alla presenza o meno del crocifisso nei luoghi pubblici. Sfiorando più
volte l’annosa questione delle relazioni tra civiltà occidentale intesa come
tradizione e cristianesimo. Naturalmente la sua vorrebbe essere una battaglia
sulla laicità dello stato. Battaglia alla quale mi associo volentieri, lo dico
da ateo e da posizione comtiana (lo chiamerò il superamento di una certa
polemica). Ma Turi ha il difetto di prenderla troppo sul serio, seppure il
cattolicesimo con ovvie velleità politiche sia un fenomeno preoccupante. E non
da adesso. «Il dibattito sulla presenza del simbolo religioso nelle scuole
resta comunque quello più rilevante, in quanto tocca il nervo particolarmente
sensibile dell’educazione dei giovani, con evidenti conseguenze sull’assetto e
sull’orientamento della società civile». Ora, sarebbe bene che Turi sapesse che
nella scuole cattoliche – o meglio: scuole per ricchi, e beati loro! –
l’insegnamento della religione o le pratiche religiose non sono armi
potentissime al servizio della reazione. Alla reazione (di destra, di sinistra,
del nord, del sud e chi più ne ha più ne metta) bastano e avanzano i conti in
banca. D'altra parte chiunque sarebbe sconcertato nell’apprendere che gli studenti che
trascorrono anni e anni all’interno di quegli istituti nulla sanno della
Bibbia, dei Vangeli e dei temi religiosi più diffusi. Quel cristianesimo nulla
ha di sacro o molto più banalmente di sincero. È elemento sovrastrutturale di
una borghesia che ha affidato all’altissimo l’esercizio di una non ben
precisata giustizia, sicura ieri come oggi di non essere delusa da un piano
segreto anch’esso non ben precisato. Una cristianesimo mordi e fuggi ad uso e
consumo del cosiddetto credente e del suo conto in banca. Turi non sbaglia
dunque quando scrive di un cristianesimo senza Cristo, di un cristianesimo
politico. Ma aggiungo che si tratta di un cristianesimo che fa volentieri a
meno anche dell’altro da sé. Che stenta a umanizzarsi come da un altro versante
il colto cattolicesimo – tutto paroloni e citazioni – dei molto onorevoli maestri
di Dio. Di questi ultimi orgogliosamente fuori dalla realtà e delle loro
prediche insopportabili, non mi preoccuperei affatto.
Infine le case editrici. Turi ne cita alcune come si trattasse di Einaudi
o del gruppo Rizzoli, e cita un numero non esiguo di autori – giornalisti o
accademici, peraltro bravi e preparati come Giuseppe Parlato – quasi fossero E.
L. James o J. K. Rowling. Felice di sapere che contrariamente a quanto si è
sempre sostenuto – io stesso l’ho scritto più volte – gli uomini di “destra”,
hanno gusti raffinati, sono esigenti e naturalmente leggono molto. Un gruppo
editoriale come “Il Cerchio” di Adolfo Morganti (sanfedista e
antirisorgimentale) e un professore molto polemico come Franco Cardini –
ipercritico verso la cultura americana – che qualche anno fa si presentò alle
elezioni comunali di Firenze raccogliendo il 4.5 % dei voti, peraltro lontanissimo
da certi ambienti della “destra culturale” e molto apprezzato a sinistra, sarebbero
pilastri di un’egemonia che solo Turi riesce a vedere. Un secondo gruppo
editoriale come quello dell’amico Marco Solfanelli citato anch’esso, non di
Roma ma di Chieti, che stampa ottimi volumi – dai Beatles a Luigi Tenco, dai
fumetti ai temi sociologici e politici, fascisti o mussolinisti – non può certo
essere accusato di egemonizzare il mercato e le menti. Lui stesso e i suoi autori ne riderebbero a crepapelle. «Il fatto che queste
iniziative siano poco conosciute presso l’opinione pubblica non significa
sottovalutarne l’importanza», chiosa Turi. D’accordo, da oggi in poi non sottovaluteremo
nulla, ma non ho ben capito quali iniziative adottare per arginare la cosiddetta valanga nera. Scendere in piazza per la chiusura delle proposte editoriali? Una semplice, facile e comoda
demonizzazione?