D. Perché, come sostiene, il
"fascismo" è una gran rottura di palle?
R. È un termine di paragone continuo, un
omaggio all’irrazionalità – all’immaginazione, al nostro lato “artistico” – e
io sono molto razionale. Per me l’omaggio al fascismo vale come: ma quanto
erano bravi i Gracchi e che gran partito era quello radicale! La storia non
concede mai il bis. Nemmeno ciò che è accaduto un’ora fa e che verrà raccontato
tra mezzo secolo. Guardare al passato significa mordere il freno, ha un valore
esclusivamente polemico o ideologico, non pratico. D’altra parte quello storico
è sempre un giudizio sintetico. E il giudizio sintetico sul fascismo non può
non essere uno: una dittatura nella quale le libertà politiche vennero
affossate. Il fascismo è un pezzo da museo: quando vai agli Uffizi non ti interroghi
sulla biografia dell’autore di un dipinto – magari lo farai in un secondo
momento, a casa tua davanti al computer e con carta e matita – osservi e basta.
Ecco: fare ricerca storica è una cosa, l’approccio emotivo un’altra. Andare per
musei stanca la vista; e poi come in Provaci
ancora Sam, lì dentro trovi anche chi si vorrebbe suicidare.
D. Il fascismo non ebbe meriti? Dove lo
mettiamo lo stato sociale?
R. Il fascismo ebbe certamente dei meriti.
Senza voler ritornare sulle discussioni di qualche tempo fa, quelle su:
“Mussolini fece anche cose buone”, meravigliosamente chiuse da Roberto Benigni
con qualcosa del tipo “Bé sì, magari fece costruire una strada” o se incontrava
una vecchietta salutava per primo. Un merito
è quello di aver fatto l’Italia. Prima del fascismo e di ciò che ne fu la
scaturigine cioè la grande guerra l’Italia praticamente non esisteva. Mussolini
completò la costruzione della nazione e fece a suo modo gli italiani. Però come
avrebbe detto Gianfranco Fini ai bei tempi (quando litigava in tivù con Luciano
Lama): non è che l’abbia fatta molto bene. L’Italia era un paese addormentato,
irreggimentato ma violento. Poi ci furono le guerre e lo “scherzo” della seconda
guerra mondiale. Alla fine dovette riprendere da dove aveva lasciato e fu tutto
più complicato. Credo però che la questione fascismo sì / fascismo no, sia più
emotiva che storica (non dico scientifica). Ma il paradosso è anche questo: noi
abbiamo del fascismo un’idea articolata, ideologica, ma basata su dati storici
(e non poteva essere altrimenti). Noi del meridione, eterni conservatori e
qualcos’altro, pensiamo che in fondo ci sia andata bene e che il periodo
peggiore sia stato quello dell’“invasione” degli angloamericani. Al nord la pensano
in maniera opposta. Lì c’è stata la resistenza. Qui la resistenza, mutatis
mutandis, l’hanno fatta i “non si parte” del ragusano. Non per niente nel 1954
i libri sulla “rivolta” meridionale si leggevano come quelli di Guénon e di
Evola.
D. Lei però è conosciuto come studioso di
Evola, di cui ha curato anche delle opere...
R. Evola è un personaggio sul quale tra un
secolo esatto si continueranno a dire le stesse cose. Cioè tutto e nulla. Si
rende conto che ancora non abbiamo capito che cosa fosse questo dannato “razzismo
totalitario?”. Evola ti inganna perché il suo approccio è come dire
pre-machiavelliano, pre-moderno. Per lui la politica non è arte del possibile,
ma “ricerca” del nemico e incondizionata capacità di sognare. Di Evola ti affascina
la facilità con la quale butta giù come una palla da bowling i grandi nomi
della filosofia europea. Quelli che magari ti stavano un po’ antipatici.
D. Per esempio, quali?
R. Ricordo quello che scrisse Mircea
Eliade: Nietzsche, Gentile e poi gli esistenzialisti. Tutti da superare o da
bocciare. Anche Michelstaedter, il suo maestro, il maestro di Evola. Tutti
fermi a metà strada. O in mala fede o retorici o fumosi (come Gentile). Per non
parlare di quelli, come dire, ufficiali. Quelli che sono i padri della nostra
parte di mondo, che si studiano a scuola e dai quali impari grossomodo a
ragionare. Tutti uniti inconsapevolmente nel grande “complotto” mirato a far
cadere l’Occidente nella rete del kali yuga. A parte il fatto che – come certo
marxismo insegna – nessuno ha capito se la decadenza del mondo fosse
inarrestabile o meno. Perché se lo era, inarrestabile, a che pro votarsi al
fascismo? Anzi a un arrogante superfascismo? Ma so cosa Evola avrebbe risposto,
o meglio cosa rispose ai suoi giudici nel 1951: “io non sono fascista o lo sono
nella misura in cui il fascismo si rispecchiò nel pensiero dei grandi
controrivoluzionari”. Falso naturalmente: rileggiamolo meglio. Evola da
perfetto snob non si sporcava le mani. Ci si aspettava da lui una qualche assunzione
di responsabilità, nevvero? Ma sarebbe stato troppo per il nostro Stanislao
Moulinsky (ricorda i fumetti di Nick Carter?), falso barone spagnolo. Troppo
per chi non fu fascista ma strinse amicizia con Preziosi e Farinacci, non fu
repubblichino ma si adoperò eccome in semiclandestinità, non fu missino ma fu
amico del principe Borghese (quello che si consegnò agli alleati), che scrisse
la presentazione al suo libro del 1953. Insomma tutto un po’ complicato, tutto
un po’ siciliano (i genitori di Evola erano di Cinisi).
D. Dell’influenza di Evola sulla politica
della ‘destra’ mi pare lei non abbia una buona opinione.
R. Quando leggi Evola pensi per riflesso
condizionato che possa esistere un mondo alternativo. I buoni da un lato e i
cattivi dall’altro. Da una parte quelli che vanno contro la tradizione,
dall’altra quelli che si muovono al loro interno. Come dire? Evola ti
semplifica la vita. Poi crescendo (crescendo), comprendi che le semplificazioni
in politica sono delle dannazioni. Comprendi che i “nemici” (se ci sono) non
vanno ghettizzati, perché anche tu sei un nemico, il loro “nemico”. E la legge
è uguale per tutti, almeno in astratto. Comprendi soprattutto che in pochi anni
Evola ha distrutto quello che in una manciata di secoli (circa) è stato
costruito: parlo della cultura dei diritti. Cosa oppone Evola alla
criticabilissima concezione moderna della politica, che poi sarebbe quella
liberale? Razzismo, “differenzialismo”, elite spirituale (che non so cosa sia,
e probabilmente manco lui sapeva cos’era). No, così non funziona. La
tradizione, infine, se non una vera e propria invenzione come diceva Hobsbawm,
è un articolo di fede (insomma: zuppa o pan bagnato?), o se vogliamo
allontanarci da certo evolismo, come dicevo poc’anzi, lo studio approfondito di
un’opera, di un lavoro o di qualunque fatto umano. E quali sono le tradizioni
in Italia? cattolicesimo e rivalità cittadine. Non certo quella roba
orientaleggiante di cui Evola parla nelle sue opere.
D. A pensarci bene, questa ‘India facile’,
come la definiva un altro maledetto, Emil Cioran, è comune a molti pensatori,
poi divenuti ‘maestri’ dei giovani destrorsi.
R. Già, il fascino dell’alternativo. Il
rifiuto di noi stessi, la destra – non parlo del Msi – si è sempre sentita esule in patria, ma una patria dai confini
incerti: colpa della grande rivoluzione. Quella che a sentire certi
ragionamenti sarebbe causa di infinite aberrazioni. Naturalmente non credo a
tutto, sennò darei ragione a Evola e agli evoliani: i buoni da una parte e i cattivi
dall’altra. Ma per passare dalla montagna della dottrina alla pianura del
quotidiano, chiuderei così: ha mai fatto caso – ben al di là dei venerati
maestri – ai cosiddetti uomini della tradizione? Ho un blog dove pubblico i
miei articoli: “Scandalizzare è un diritto” (è una frase pasoliniana – a
proposito dell’India – e Pasolini che in India ci fu davvero parlava di “cancro
castale”), nella home page in alto a destra sta scritto: «Venti? Trenta? Saranno
trent’anni che leggo frasi del tipo: il complotto giudaico o giudaico massonico
o plutocratico o vattelappesca ha per fine la creazione di un’umanità sfaldata,
che non vive ma vegeta, priva di personalità. Di una massa di senza volto
pronta a obbedire ai propri burattinai come una pecora al cane da pastore.
Ecco: più che l’esito del complotto delle forze sovversive sembra il perfetto
identikit del militante di destra». Con gente di questo tipo che ha una
visione orgogliosamente e infantilmente “gerarchica” della vita e “militaresca”
delle relazioni è impossibile averci a che fare. Anzi, come diceva Mussolini,
riferendosi agli italiani: è del tutto inutile. Alcuni imitano gli imbonitori
televisivi, altri vendono se stessi – mescolando “perle di saggezza” e sciocche
citazioni – altri ancora infine si ispirano alle atmosfere dei vecchi saloon.
Sono quasi tutti meridionali naturalmente e violenti. Su questo rifletterei.
D. Come vede l'orizzonte politico “non di sinistra”?
R. Lo vedrei bene se la destra facesse sul serio.
Principio di realtà. Cultura dei diritti, rispetto della persona. Poca
demagogia. Dal punto di vista dei valori. Liberismo e accesso allo stato
sociale per i più deboli. E poi, per me, accoglienza dello straniero.
Lungimiranza. Infine sempre e solo modernità. Coppie di fatto, lotta ai tabù
culturali. Individualismo, come ci insegnano i padri del pensiero liberale.
Abito una terra nella quale tutto ciò sarebbe fantascienza, anzi utopia. O per
meglio dire distopia. Eppure anche queste non sono del tutto “libere”. Sa qual
è la condizione essenziale per il pensiero utopico? L’abolizione della
proprietà privata. Tranne Evola – erroneamente indicato come utopista – tutti i
veri utopisti pensano che dalla proprietà (e
dall’egoismo) derivi il male. Ecco io sono un antiutopista e non sopporto le
comunità, le bandiere, le regole soffocanti, le appartenenze, i colori. Ha
presente la poesia di Eluard sulla libertà, no? Ecco, nelle grandi utopie la
partita si gioca tra felicità e libertà. Quando sento parlare della prima mi
viene l’orticaria. Una scrittrice abitualmente non considerata come Sibilla
Aleramo – Prezzolini non gliele mandò a dire – antepose la seconda alla prima.
Era una donna e accadde molti anni fa. Per me, il “noi” sarebbe già troppo:
sarebbe condizione di una sorta di dipendenza o interazione obbligata. Lo stato
dovrebbe tutelare la persona e assicurare che nessuno rechi danno alla tua roba.
E basta. Oggi lo stato è ancora una sorta di santo da pregare o una vacca da
mungere. Detto questo, con estremo senso del reale, dico che vedo male la destra,
quella attuale intendo e ciò è una fortuna. Quando nacquero Berlusconi politico
e Alleanza nazionale perfino i topi di fogna s’inventarono di destra. Peggio
del renzismo odierno. Peggio perché la sinistra ha sempre avuto più dignità,
forse per il ricordo di Berlinguer.
D. Lei, quando nacque il Berlusconi
politico e Alleanza nazionale, dove era? Dico, sullo scacchiere meta-politico,
ideologico…
R. Pensavo come molti giovani che fosse
venuto il nostro momento. Venivo da una breve esperienza presso un centro studi
che mi chiarì le idee sull’approccio a certe tematiche (del tutto razionale,
naturalmente). Ma credevo di aver già capito come sarebbero andate a finire le
cose. Leggevo Marcello Veneziani che mi sembrava abbastanza serio, il prode
consigliere rai cercava di collegare idealmente il pensiero degli intellettuali
di ieri – quelli grossomodo del periodo fascista – alle vicende dell’attualità
più stringente. Ecco: idealmente è il termine giusto. Ma sentivo citare Dio ad
ogni angolo della strada. Neanche i pretonzoli filo-democristiani avrebbero
utilizzato un linguaggio simile (in realtà la cultura era grossomodo quella,
più qualche socialista di “larghe vedute”). Oggi sorrido soprattutto ripensando
alla frase di Michel Onfray: Dio morto? ma se gode di ottima salute, è sempre
sulla bocca di tutti! La sbornia durò poco. Adolfo Urso ha confessato che gli
aennini non erano maturi per il potere. Ma quella, per paradosso, è stata la
parte migliore della destra. La parte peggiore è formata da un plotoncino di narcisisti-tradizionalisti-nazifascisti-masochisti-spiritualisti
eccetera. Personaggi da fumettaccio, che spendono male i crediti acquisiti
nelle università. Se comandassero quelli – e per fortuna non accadrà mai – il
giorno dopo volerei in Australia.
D. E culturalmente? ha vinto Gramsci
(ammesso che lo si conosca oggi)?
R. Se intende dire “semplice” cultura
speriamo ancora di no. Se intende dire educazione finalizzata alla conquista
del potere temo di sì. O meglio, in Italia è sempre esistita l’idea che classe
dirigente e masse fossero su piani del tutto inconciliabili. Il disprezzo delle
masse è caratteristica anche della nostra insipida borghesia. Ciò per esempio
non succederebbe mai in Germania. Una volta c’erano i preti, poi ci fu il boom
dell’intellettuale di sinistra. Durante il fascismo – per quel che può
importare oggi – non esistette un’idea generale di cultura e di possibile
egemonia ma tante, troppe, chiacchiere cucite addosso come vestiti ad ogni
intellettuale. Per certi versi, casi a parte furono la scuola di Mistica e
certo evolismo sulle pagine del quotidiano di Farinacci. Uomo notoriamente “più
realista del re”. Il fascismo fu tutta una rivoluzione-conservatrice nel senso
che fu un miscuglio di reazione alla modernità, come disse Piero Melograni, ma
per forza di cose anche di modernità. E non solo perché fu collettore di
nazionalismi e continuatore, si dice, del Risorgimento, ma perché incastonata
nel “secolo breve”, e una forza politica nel Novecento non può non essere
moderna. La modernità come periodo non come concetto, non è una opinione né una
scelta, la si subisce. Gli intellettuali di “sinistra” mi hanno sempre
interessato, alcune furono delle figure quasi tragiche o patetiche che pagarono
lo iato psicologico, e non solo, tra la fedeltà alla chiesa comunista e la
libertà di pensiero. Unico vero faro per un intellettuale che deve essere
libero perfino da se stesso, come un esponente dada. Trovo dunque l’idea
dell’educatore un po’ pericolosa, dal mio punto di vista. Non so perché
l’abbino al manganello. Alle bacchettate sulle mani. Se invece lei vuol dire
che ha vinto la sinistra, ebbene non vedo chi avrebbe potuto vincere. Se
volessi fare l’evoliano direi che la
Chiesa non è più modello di niente, non lo è da un punto di
vista rivoluzionario, non lo è come ordine sociale, non lo è come esempio di
comunità, non lo è come “acceleratore di particelle” metafisiche o
semplicemente come modello culturale. La destra del dopoguerra è stata
semplicemente il nulla. Nata con chiari intenti difensivi. È morta con la fine
della guerra fredda. Poi qualche anno dopo è venuto Berlusconi a farci capire
che con Tolkien e gli altri ci passi una serata (piacevole), ma non ci voti una
legge in parlamento.
D. Lei dice che alcuni intellettuali di
sinistra l’hanno interessata. Quali sarebbero?
R. Ho letto Pavese – che è comunque al
confine – Vittorini, Pasolini – altro borderline – e molti altri con passato
anche imbarazzante non lo nego. Naturalmente se vuoi farti un’idea della
regione che occupi Sciascia è obbligatorio come una volta il servizio militare.
Sciascia fu indipendente del Pci. Ma oggi non ne farei una questione di
“destra” e “sinistra”. Camus e Gide mi hanno dato più di Guénon e di qualunque
altro astruso pensatore vittima di mode e simpatie. Poi naturalmente il Woody
Allen scrittore che padroneggia il rapporto dialettico realtà-fantasia come
pochi. E che cerca di sanare la frattura tra i canoni del mondo reale –
imprescindibili – e il diritto ai sogni. Insomma ti fa crescere.
D. Scusi, ma lei, allora, ‘a destra’ che
ci fa?
R. Grazie a dio ho imparato a ragionare
per generazioni. Se lei ragiona con approccio astorico la risposta è: nulla! Io
con quella destra c’entro come Jeeg robot d’acciaio in un film western. Se per
destra si intende quella sorta di baule nel quale “teorici” del pensiero
rifiutato, liceali con velleità spiritualiste (e non entro nel merito), madonne
e madonnari, coppole storte e fascisti che non hanno conosciuto né Mussolini né
Almirante e forse manco Fini si trovano pressati a forza. Ma codeste comunità
di macellai e vegetariani, carnivori e vegani nutrono reali speranze? Alcuni
credono a una prossima età dell’oro (con Giorgia Meloni gran sacerdotessa?),
altri sono sedotti dalla retorica della romanità o dal fumo del mondo classico
salvo nei fine settimana definirsi futuristi. Altri dal fascino del proibito.
Altri – se me lo consente – sono forse un po’ matti. Altri infine, la
stragrande maggioranza, sono borghesi che esemplificano alla grande la
relazione struttura-sovrastruttura. Hanno creato una ideologia a perfetta
immagine dei loro interessi. Tuttavia, mi piace ragionarla così, la destra non
è più quella di ieri, anzi non è più quella eterna: dio, patria, famiglia, mia
sorella è vergine e mio padre eroe omerico. Dopo il boom, il Sessantotto, il
Settantasette e quella che è stata definita l’età del benessere, molte cose
sono cambiate. E con esse le pedagogie. Non sottovaluterei il rock, le mille
possibilità che offre l’ateismo. E poi il mercato. D’accordo ogni fascia d’età,
ogni genere ha la sua fetta di mercato che impone costumi e comportamenti, ma
che vogliamo fare assaltare gli ipermercati al grido di morte al tostapane? Il
potere è il potere e precede la politica. Evola mi ha insegnato che le risposte
ai quesiti, grandi o piccoli che siano, non devono sfuggire al rigore logico. Se
no non sono risposte. Le soluzioni devono essere vere soluzioni. Chi ha verità
in saccoccia? A meno che non passino per la declamazione dei versetti del
fascista perfetto o per il corteo comunista con zero proletari al seguito.
Vogliamo condannare il gruppo Bilderberg? Come diceva quel tale però, guarderei
prima al Bilderberg dentro di me e poi a quello fuori di me. Conosco chi da
quarant’anni e passa ripete sempre le stesse cose. Immobile come una nave in
bottiglia: la sua realtà è di un unico sbiadito colore. Non si è accorto che di
occasioni ne sono passate come acqua sotto i ponti. E cosa è accaduto? Forse
come direbbe Pound o non vale nulla lui o non valgono le sue idee. Magari
provasse ad andare dal medico. O dallo stregone.
D. Da quello che ci ho capito, mi pare che
lei si sia rassegnato al tramonto dell’Occidente. Mi pare che attenda, o meglio
sia sicuro che qualcosa – la nostra civiltà, quello che noi abbiamo sempre creduto
essere la nostra civiltà – è destinata a
passare.
R. Non so se l’Occidente è al tramonto. Su civiltà
antiche e moderne, vecchie e nuove e raffronti tra il prima e il dopo la
pubblicistica è sterminata. Ricordo tra le prime letture quella di Guizot. Trovo
che almeno da un secolo la “civiltà americana” rappresenti il meglio che il
nostro mondo abbia prodotto – naturalmente ha mille imperfezioni, ma l’attacco
della Costituzione quel “Noi popolo”, fa venire i brividi e il più delle volte
anche gli incubi. Ecco il Colosseo mi è venuto a noia, le torri gemelle mi
piacevano tanto. Peccato non ci siano più. La mia generazione, per tornare al
discorso di prima, ha sue fondamenta, sue colonne, muri e finestre per mezzo
delle quali – come in uno spettacolo di Emma Dante – comunicare con l’esterno, ma
anche con l’eterno, se si vuole: esterno senza la “esse”. Non me la sento di
distruggere il mondo. C’è chi dice che questo sia anche un modo di cavalcare la
tigre. Non so, non credo, è una locuzione pericolosa da fascista puro, che
stavolta una “esse” la guadagna: sfascista. E per far che? Torna il quesito: consegnerebbe
a un pugno di estremisti digiuni di giusnaturalismo mappa topografica e
bussola? Presterebbe a dei costituzionalisti per hobby e laziali per chiamata le
chiavi di casa?